Il Riccio fatato

Nell’antichità, ma la datazione è imprecisa, i suoi aculei erano usati per rendere ruvidi i panni. La carne invece perché ritenuta provvista di virtù terapeutiche era utilizzata come farmaco ad esempio contro le calvizie forse perché gli aculei hanno l’aspetto di capelli fortissimi. Inoltre si pensava che una pelle di riccio appesa alle viti fosse in grado di allontanare la grandine.
Molti esseri del Piccolo Popolo si tramutano in un riccio quando avvertono situazioni pericolose. I ricci vivono la notte e i suoi misteri.

Per i babilonesi il riccio era l’emblema della dea madre Ishtar (dea dell’amore, della fertilità, dell’erotismo e della guerra).

Per gli antichi Greci ed i Romani era simbolo di intelligenza. Ad esempio Plinio  il Vecchio (23-79 d. C.) tesseva le lodi di questo animale per la saggezza che rappresentava e per la sua fama di prudente accumulatore di scorte alimentari.

Il bestiario medievale celebra l’acume del riccio che, se in pericolo, si appallottola sfoggiando i suoi aculei. Inoltre mostra la sua intelligenza nella costruzione della tana, che ha spesso due accessi. Quando soffia il vento del Nord l’entrata posta a Nord viene bloccata e l’animale attende fino a che il vento del Sud non ha dissolto la fredda nebbia.

Nella cultura celtica questo animale rappresentava la fertilità e la fecondità perché il suo ventre striscia sul suolo, sulla Madre Terra e quindi presentava una connessione con la terra e tutto ciò che era fertile.

Testo raccolto da Giulia Cesarini Argiroffo, grazie

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